Steve Sabella
Archaeology of the future
A cura di Karin Adrian von Roques
Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri (VR)
8 ottobre – 16 novembre 2014
Perché Archeologia del presente? Il titolo della mostra è un evidente paradosso, ma soprattutto è un Manifesto programmatico. Solo scavando in ciò che Bergson definiva “flusso vitale”, ovvero nell’esiguo passato di un’esistenza umana, si ritrovano le basi del futuro, non tanto individuale, ma collettivo.
Secondo questa prospettiva di vita “futura” – oramai attuale – la maggior parte delle opere esposte a Verona sono state raccolte nella città Antica di Gerusalemme e mimano frammenti archeologici millenari. Non solo le pietre o i frammenti di intonaco delle case occupate nel 1948, da cui sono fuggiti circa 700.000 palestinesi, ma ogni opera di Sabella può essere definita frammento di un’antichità proiettata nel futuro, un attimo in cui è compendiato tutto il passato e gli accadimenti successivi. Questo comporta fare l’arte: creare un DNA di cellule in continua evoluzione.
Ecco dunque tornare Bergson, non a caso teorico di riferimento del Cubismo, per il quale il tempo “reale” non coincide con quello misurato, scientifico, ma con il tempo soggettivo in cui una netta distinzione tra passato e presente non c’è. E come appaiono i collage di Sabella, se non immagini simil-cubiste, scomposte e ricomposte dalla tridimensionalità del “reale” alla bidimensionalità della fotografia? Che Sabella sia consapevole o meno di tale matrice importa relativamente. Di certo, nelle sue opere passato, presente e futuro, oltre che luoghi diversi, si sovrappongono, come le angolosità delle Demoiselle d’Avignon di Picasso sono frutto degli idoli ancestrali africani tanto quanto delle ricerche a lui coeve sulla quarta dimensione.
Il tempo collassa e così i luoghi, dicevamo. “Everything is a menthal state, the place itself doesn’t exist”, esprime Sabella. Lapalissiano. Gerusalemme, che l’artista esule definisce “la capitale della sua immaginazione”, è suddivisa in effetti, non in cubi, ma in griglie, in quattro quartieri (musulmano, ebreo, cristiano, armeno), così come il muro che divide i territori occupati è una linea geometrica che tenta di confinare l’inconfinabile. Il muro è l’orologio di Bergson che non riesce a ridare la realtà del tempo. In questo riesce solo l’immaginazione, la forza creatrice che ricompone le storie delle famiglie e i frammenti di intonaco delle case abbandonate nel ’48, anche agli strati dei decenni successivi, quelli dell’assenza.
Anche per questo sconfinamento irregimentato Steve Sabella ama definirsi artista universale, pur non rinnegando le sue origini, il proprio passato appunto, di Palestinese, di arabo-cristiano nato a Gerusalemme, città da cui si è distaccato nel 2007. Dallo stato di esilio mentale Steve si è liberato attraverso l’arte. E se l’arte autentica conserva quell’ambiguità che la rende eterna, Sabella è consapevole che l’indeterminatezza dell’esistenza umana sfugge alla geometria, anche alla sua. Così le mani contorte dei vecchi, sono asimmetrie su fondo nero, non hanno tratti etnici, né è possibile rintracciarne un’epoca, se non quella della fragilità senile. La stessa fragilità degli intonaci strappati dai ruderi, divenuti “affreschi” contemporanei, non dipinti a colori ma impressi in bianco e nero. Così l’esule mentale, più che fisico, vede muri laddove non ci sono, nella Berlino, dove ora vive, che un muro l’ha abbattuto 20 anni prima del suo arrivo. Poi finalmente l’arte arriva, ferma il tempo e lo fa ripartire.
Karin Adrian von Roques
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