sabato 12 febbraio 2011

PELIN SANTILLI per Mattia Fagnoni ONLUS

Si dice che l’artista contemporaneo deve provocare. L’arte deve essere provocazione. La trasgressione: è questo il totem. Spingere i confini sempre un metro più in là, sondare nuovi territori. Gli artisti ci hanno da sempre portato con loro oltre il confine. È la letteratura che per prima segna i nuovi confini e insegna a trasgredire; tutte le arti ne sono debitrici. In passato il marchese De Sade, Baudalaire o Poe, oggi Clive Barker, King (per lui basta il cognome) o J.R. Lansdale. In letteratura come in pittura e di riflesso nella società, i ribelli si muovono ai margini. Vivono negli abissi e illuminano, da sempre, le arti con lampi di luce quasi accecante. Fanno scintillare gli angoli più bui del creato (e dell’immaginario). La letteratura contamina, come una mamma infetta, le altre arti: il fumetto, la pittura, il cinema. Molti artisti contemporanei non dipingono più il diavolo, un soggetto che per secoli ha dominato la scena dell’arte, da Bosh (maestro di oscenità) a Michelangelo (con i suoi diavoli collerici), come se il peccato fosse uscito dalle tele e non valesse più la pena di rappresentarlo. Trovare artisti che in qualche modo evocano queste presenze è difficile. Ma c’è ancora la pittura che riesce ad evocare letteratura. E la letteratura che evoca Pelin è quella che non fa sconti, un genere che ha fatto epoca negli anni ’80, lo splatterpunk. Lo splatterpunk moderno trova il suo pioniere in Jeorge Romero. I suoi morti viventi hanno fatto la rivoluzione: all’inizio fu il desiderio di carne a muoverli, ora i morti viventi si sono evoluti e il confine che li separa dagli esseri umani è davvero sottile. Lo stesso confine sottilissimo che Pelin inocula nei suoi soggetti: presenze ibride, un po’ umani, un po’ morti viventi, un po’ punk, un po’ vampiri esangui. La separazione non è mai netta, ogni soggetto potrebbe essere tutte queste cose messe insieme. In qualche modo, nelle opere di Pelin la realtà è ribaltata, è l’oggetto che da la caccia al soggetto, la riproduzione di elementi splatterpunk mette l’opera in una posizione di fame rispetto alla realtà, un cannibalismo decadente che mostra le cicatrici di una società morta. I morti viventi di Pelin sono figli della filosofia-concetto della pop art: l’uomo destinato al consumo, non c’è possibilità di alternativa, la condizione è irreversibile: uomo consumato. Le visioni oniriche di queste tele ci svelano (come in sogno) immagini distorte e senza controllo, cogliamo simboli ancestrali e primitivi e rimandi alla moda degli ’80, lo spazio urbano diventa un teatro (dell’orrore) dove le immagini si scompongono e si sovrappongono, si decontestualizzano fino a staccarsi dal fondo per creare una crepa, un buco nero, un varco che conduce in una realtà altra, un mondo parallelo abitato dai nuovi zombi o nuovi uomini. Un mondo che a guardarlo bene è maledettamente simile al nostro, solo che questo mondo perde di dinamismo, rimane bloccato dai feticci del nostro tempo, intrappolato dal flash della macchina fotografica, della telecamera o della web-cam. Non amo le etichette. Ne mi piace inchiodare le arti in generi. Tanto meno stabilire gerarchie: arte di serie A e arte di serie B non esistono, come non esiste letteratura alta e letteratura bassa; esistono invece, elementi che caratterizzano alcune correnti.


Lo splatterpunk, per definizione (mi perdonerete l’ironia) è non catalogabile. Splatterpunk vuol dire contraddizione, luce e oscurità, yin e yang. Per entrare in contatto con questo modo di focalizzare il mondo (i mondi) bisogna scavare oltre le cicatrici, la pappa di cervello che schizza dai crani e armarsi di senso dell’umorismo e coraggio, in ogni cicatrice ci troverete un significato profondo, una visuale straziante sul nostro tempo malato. State per entrare in una terra oscura (forse inquieta come la quarta dimensione di Rod Serling), dove l’orrore si fonde con l’arte, avrete bisogno di una colonna sonora pesante. The Cure o del rock duro (questo lo sceglierete voi), unica raccomandazione: sparato a tutto volume. Varcando il confine incrocerete (tutti insieme) il teatro francese del Gran Guignol interpretato dai personaggi-culto del video-maker tedesco Jorg Buttgereit con i tratti grafici del miglior Angelo Stano del Dylan Dog prima maniera. Le opere di Pelin, si caratterizzano e si propongono come la natura morta dei nostri peggiori incubi sociali. Siamo in un luogo non-luogo dove il reale diventa trascendenza. Un pellegrinaggio di immagini in bilico tra realtà e suo ribaltamento fantastico, dove i mondi si disfano per ricomporsi in immagini e simboli incancreniti e putrescenti. Avventurarsi in questi labirinti vuol dire scoprire la casa dell’anima, il senso della vita (e del mistico) di una cultura notturna che vive tra il magico e l’orrorifico, il reale e l’irreale. Un mondo claustrofobico di una malvagità sovrannaturale. Pelin gratta, corrode la superfice della materia per mostrare le ombre dell’anima e le cicatrici che la nostra generazione porta addosso. Sembra di essere finiti in La notte del drive-in di J.R. Lansdale, con zombi e altre creature strane che ti ronzano intorno. Questo tipo di pittura evoca letteratura, lo abbiamo già detto ma attinge a piene mani da tutte le correnti espressive più rappresentative dei mitici ’80: la graffiti-art, l’underground e il punk. Tutte le immagini sono sempre figlie della cultura del proprio tempo eppure chi come pelin è cresciuto negli ‘80 non può non cannibalizzare ed elaborare per poi porre su tela i simboli dell’identità punk-dark di quegli anni. I ragazzi degli anni ’80 portano innovazione in ogni campo artistico e fanno da volano a nuove tendenze: la transavanguardia, il neoespressionismo e la graffiti-art, le creste fucsia del punk e il total black dei dark con i loro luoghi di ritrovo bui e sotterranei, la musica dei The Cure, la comunicazione al centro del mondo, sentimenti di odio e distruzione sono gli emblemi del movimento. Reazione contro i media e alla loro capacità di massificazione-omologazione. Se c’è una cosa che possiamo imparare da quei ragazzi che negli anni ’80 fecero la storia è che i giovani hanno una forza sovversiva, sono in grado di ribaltare i valori degli adulti e pronti a sperimentare nuovi linguaggi e a mostrare la loro identità attraverso un simbolismo forte. Pelin sembra arrivato dagli anni ’80 con il tele-trasporto per mostrarci brandelli di quella scena luccicante, ora tocca a te fare il viaggio inverso, e scoprire che gli anni ’80 non sono mai finiti. Se sei arrivato fin qui sei pronto ad intraprendere il viaggio. Anche se non hai vissuto gli ’80 non temere, il viaggio è comunque rivelatore, ora basta con le chiacchiere, solo due cose: le opere è meglio guardarle e ascoltarle (in questo caso) piuttosto che leggerle, perciò abbassiamo la leva delle parole al minimo, fino a farla coincidere con lo zero e alziamo al massimo il volume:
the punk goes on.

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