Intervista a SPAM
Di Giada Pellicari
Ho avuto il piacere di
intervistare SPAM, noto collettivo originario di Firenze che ultimamente ha
riscosso un grande successo mediatico grazie alla Shit Art Fair durante la settimana delle fiere Torinesi. Non
abbiamo però parlato solamente di quest’ultimo progetto, quanto del loro
percorso e del loro approccio al processo artistico relazionato alla strada.
Qui di seguito la nostra
chiacchierata.
Giada: Siete nati nel 2010
all’interno dell’Accademia di Belle Arti di Firenze. Già a partire da un lavoro
come Big Brother is Watching you,
realizzato nel bagno dell’Accademia, si potevano ben comprendere le vostre
intenzioni contro il sistema di comunicazione mediatica e contro le
istituzioni.
Volete raccontarci com’è
nata la vostra collaborazione e quali erano le vostre finalità?
Spam: È nato tutto molto spontaneamente,
senza esatte finalità. Non ricordiamo con quali intenzioni precise attaccammo Big Brother is Watching You in quel
macabro wc, e nemmeno perché ci spingemmo per la prima volta, nel dicembre
2010, ad attaccare in strada una trentina di poster (sotto la pioggia
insistente di quella notte, che tuttavia faceva un baffo alla nostra
adrenalina). Il fatto è, che eravamo, e siamo, un bel gruppo di amici; “spam”
nasce da questa particolare coesione e intraprendenza collettiva. Le finalità
comunicative, le provocazioni, la rivendicazione dello spazio pubblico, sono
tutte intenzioni nate dopo, prendendo consapevolezza di quello che potevamo
fare. In origine “spam” (che ancora non aveva nemmeno un nome) era solo una
ragazzata notturna come tante altre, e ci teniamo a ribadirlo. La potenza del
nostro lavoro sta oggi, nell’osservare come quella casuale bravata sia divenuta
un discorso più ampio.
G: Non vi definite
propriamente degli Street Artists, anche se utilizzate fondamentalmente una
tecnica della Street Art, quella della poster art, agite sulla dimensione di un
linguaggio per certi versi molto similare e vi muovete sullo spazio urbano.
Credo che forse la differenza stia proprio nella finalità, ovvero che nel
vostro caso l’approccio sia molto più vicino a forme di attivismo politico e di
guerrilla marketing. Mi interessa però capire come funziona anche nel vostro
caso la scelta dei luoghi, un aspetto fondamentale sia per quanto riguarda il
Writing che la Street Art, dato che entrambi si vanno a contestualizzare in un
determinato spazio, dialogandoci.
Mi raccontate come avviene
la processualità del progetto a partire dall’idea fino all’effettiva
“esposizione” in strada?
S: Siamo street artist
perché agiamo in strada con le modalità di questo fenomeno. Tuttavia, lo siamo “per
casualità”; la nostra prerogativa era lavorare in strada, e non quella di
essere degli street artist. Volevamo questo perché la strada è il luogo della
gente, lo spazio dove le persone vivono la propria quotidianità, e quindi ci
interessava creare qualcosa in questi spazi e non in altri luoghi, invece,
distaccati dal pubblico. Di conseguenza, ci hanno definito “street artist”, ma,
di fatto, il nostro lavoro rimane solo una contaminazione pubblica in uno
spazio pubblico. Lasciamo agli alti le definizioni, a noi piacciono le
“azioni”.
Spesso abbiamo idee
sommarie, ne parliamo tra di noi, casualmente o meno, troviamo i luoghi adatti
e consoni per realizzarle e a quel punto organizziamo l’attacco nei dettagli.
Altre volte, succede che vedendo un posto interessante, di conseguenza,
pensiamo a un attacco su misura per quel luogo. Insomma non abbiamo una
progettualità ben precisa o fissa, ci fidiamo a naso delle situazioni e ci
facciamo molto influenzare da tematiche o location; studiamo molto gli attacchi
ma lasciamo sempre tanto all’improvvisazione.
G: Guardando bene i vostri
lavori e molte delle citazioni che fate, spesso vi è un riferimento a Pasolini,
nitido o sottinteso. Cosa trovate fondamentale di lui per lo sviluppo della
vostra pratica artistica? Quali altri
riferimenti sono stati importanti nella vostra formazione?
S: Una delle frasi che più
amiamo di Pasolini è quella che recita “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere
scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista”. Sintetizza un po’ tutto il nostro
lavoro, che si fonda su immagini crude, alcune volte brutali, che, proprio
perché poste sotto lo sguardo pubblico, innocente o prevenuto, del passante,
possono essere talvolta fonte di scandalo o, comunque sia, di spiazzamento. Noi
non vogliamo scandalizzare, ma solo produrre una riflessione.
E anche le tematiche che
affrontiamo sono in gran parte di matrice pasoliniana, basta pensare ai medium
di massa, alla tv, al discorso sul potere, i corpi sottomessi, la civiltà
industriale, la mercificazione consumistica. Altri riferimenti? Ne abbiamo a
decine, ma è bello che li scoprano i passanti di fronte ai nostri lavori…
Pasolini Martire. Come in cielo così in terra |
G: Parliamo ora del libro
che avete pubblicato nel 2012 sia in forma online che cartacea, dal titolo “Tutto ciò che sai è falso”. L’ho trovato molto interessante perché si configura
come un libro d’artista, ovvero funge da documentazione del vostro lavoro e si
presenta allo stesso tempo come un prodotto artistico fine a se stesso. E’
inoltre allo stesso modo una ricostruzione critica della realizzazione di
alcuni lavori e della scelta di agire in pubblico, mettendo in luce in alcuni
casi il dispositivo del processo. Com’è nato questo progetto editoriale e che
tipo di riscontro avete avuto?
S: Questo libro nasce
fondamentalmente per fare il punto sui nostri primi due anni di attività in
strada. Volevamo renderci conto (noi per primi) di ciò che il nostro lavoro era
diventato, dato che, l’iniziale ragazzata di andare ad attaccare due poster di notte
era diventata in due anni la nostra piena, e vera, occupazione. Volevamo fare
un libro per raccontare tutto questo, con materiale inedito, articoli e
appunti, disegni e schizzi, foto dei backstage, ma soprattutto volevamo creare
un’autoproduzione tutta nostra, senza essere alle dipendenze di editori,
correttori di bozze o di cavilli legali e burocratici. Abbiamo lavorato a tutti
gli aspetti del libro, dalla sua impaginazione alla stampa, sino alla
distribuzione e alla presentazione ufficiale. La cosa che più ci premeva è che
l’intero libro fosse disponibile anche in versione free scaricabile online, per
questo abbiamo deciso di fare il lancio online ancora prima di quello ufficiale
cartaceo. Nelle prime 3 ore che il file era online ci furono circa 600 download,
diciamo che il nostro intento di “spammare” il libro in modo gratuito è
riuscito a pieno. Quello che volevamo era pubblicare un libro, senza diritti e
senza limitazioni, che potesse essere visto e stampato integralmente da
chiunque lo avesse voluto. Se una persona vuole dare il suo contributo per
sostenerci può comprare una copia delle nostre stampe ufficiali, altrimenti, se
non può, o non vuole, c’è il download free, che tutti possono visionare o
stampare a loro piacimento con i costi che vogliono. Questo è il senso del
nostro libro.
G: Veniamo ora alla Shit
Art Fair tenutasi recentemente a Torino, che ha avuto un grande preannuncio a
livello mediatico e di guerrilla marketing, e ha inoltre riscontrato numerose
recensioni. Molto è già stato detto rispetto a quell’evento, a me invece
piacerebbe parlare di un aspetto che non è ancora stato trattato. Di per sé in
questo caso avete notevolmente ampliato il raggio d’azione del vostro lavoro,
andando ad occupare interamente un sottopassaggio e appropriandovene in maniera
totale. Altro aspetto interessante è che avete anche invitato dei vostri amici
Street Artists e avete realizzato una sorta di mostra che ha una sua coerenza
in sé, dove i lavori si sviluppano e vengono esposti in stretta correlazione
con le cornici del tunnel.
Vi siete resi conto che
avete realizzato un progetto curatoriale in occupazione? Com’è andata la
realizzazione del progetto nelle sue fasi e quante persone vi hanno
collaborato? Qual è stata la risposta del pubblico?
S: Qualcuno ci ha detto
che “Shit Art Fair” è il più grande attacco abusivo mai realizzato in ambito di
street art. Noi non siamo sicurissimi che sia così, ma è certo che è un gran
bel progetto, considerando che si tratta di un’azione non autorizzata
realizzata in una sola notte.
Adesso che tutto è attaccato, che la gente si
dirige sotto il tunnel a vedere e fotografare, che la stampa online e cartacea
pubblica notizie e recensioni, sembra veramente un miracolo; il mese di
preparativi, però, è stato il periodo più impegnativo che abbiamo mai
affrontato nella realizzazione di un attacco. Lavoravamo dalle 8.30 di mattina
sino all’1 di notte ogni giorno, dipingendo circa 70 metri quadrati di carta a
settimana, per un totale di 135 metri, non considerando la parte preparatoria
di bozzetti, schizzi, accorgimenti logistici, studio del luogo, fotografie,
piantine e molto altro. Se tutto questo fosse durato anche solo una settimana in
più avremmo raggiunto la pazzia totale.
La notte dell’attacco eravamo
veramente in tantissimi. Quando dicevamo agli amici che saremmo stati tipo in
20-23 persone, tutti rimanevano increduli; spesso essere in tanti può essere
solo un impiccio eccessivo e un rischio maggiore per essere beccati. Tuttavia
organizzammo bene i ruoli in modo coordinato e in un’oretta tirammo su tutto,
senza intoppi o imprevisti. I “pali” funzionarono perfettamente, e nessuna
volante o vigilanza ci beccò con i secchi e le scope in mano.
Il tunnel adesso è un
immenso inferno dantesco, dove corpi sfruttati e maceri vengono frustati e
sodomizzati da figure come critici d’arte, collezionisti e quant’altro. Ci sono
le gallerie-macellerie, le fiere d’arte simili a bocche dell’inferno, il
cimitero degli artisti; il tutto è condito da numerosi riferimenti e citazioni,
da Pasolini, a De Sade, da Bosh a Durer.
Fuori da questo calderone,
invece, c’è L’atelier dello street artist,
tributo a Courbet, dove in rappresentanza della scena urbana, sono presenti
anche i disegni di Hogre, Ufo5, Galo, JBRock e HaloHalo. La loro presenza è
indispensabile, perché avere i contributi di amici che stimi e che segui è
sempre una grande soddisfazione. I loro disegni attaccati lì, insieme ai
nostri, simboleggiano che alla base c’è “un che” di condiviso, e siamo onorati
di essere su quel muro insieme a loro.
Adesso le fiere d’arte
sono finite. “Shit Art Fair” è ancora lì, attaccata nel tunnel del parco del
Valentino a Torino. Questa è la conferma della riuscita del nostro show, uno
show abusivo, gratuito, dove non si compra e non si vende niente, uno show per la
gente, e che la gente può ammirare o criticare, fotografare come strappare e
cancellare. “Shit Art Fair” non è un’imposizione, durerà fin quando la gente lo
vorrà.
Si ringrazia SPAM per le foto.
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