mercoledì 3 agosto 2011

Baronissi come Tokyo: la street art cambia il volto al convento medioevale

Storicamente, i graffiti sui muri delle metropoli, segni di un nuovo linguaggio artistico che si suole definire Street Art, hanno avuto origine a New York per merito di due artisti di valore indiscusso, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Da allora molte cose sono cambiate e in alcune città del pianeta la Street Art è stata rigorosamente perseguitata e proibita dalle autorità. Intanto, il movimento artistico si era diffuso a livello mondiale sul finire degli anni Novanta era sorto un nuovo modo di disegnare le figure e una nuova strategia per evitare la persecuzione della polizia, che ovviamente non riguardava più i pionieri, diventati protagonisti di esposizioni nelle principali gallerie e nei più famosi musei.

Ai 42 graffitisti invitati a Baronissi il sindaco ha fornito bombolette di colore facendo costruire per loro le impalcature su cui lavorare. E in due giorni gli artisti hanno riempito di opere un muro lungo più venti metri, quello sui cui poggia il convento della Santissima Trinità, edificato nel 1212. L’idea di vivacizzare il contrafforte del convento con immagini ispirate direttamente alla cultura artistica giapponese, che va dai samurai al culto dei fiori come il ciliegio e la rosa, si è trovata in perfetta sintonia con la nuova destinazione del complesso religioso. Di fatto, dopo un rigoroso restauro con la nuova destinazione a Museo cittadino Galleria d’arte contemporea, il poderoso muro si è rivelato più che adatto a ospitare lo straordinario racconto narrato attraverso immagini vivaci e colorate. Un risultato di sicuro si è realizzato, a Baronissi: una sequenza d’immagini dai diversi stili che evocano a ogni passo la tragedia del Giappone, realizzate con gli acrilici e gli spray delle bombolette. Rispetto al passato, gli artisti che hanno partecipato al Festival fanno un largo e diffuso uso dell’astrattismo pittorico, della tecnica tridimensionale e di un disegno che trasforma le lettere dell’alfabeto in soggetti estetici. In questo caso gli artisti seguono le innovazioni della Pop Art, specialmente nei toni dei colori, e dell’espressionismo astratto di matrice americana e tedesca.

Un artista classico, un pittore che adopera la tela o altri supporti, forse non disporrebbe della stessa perizia tecnica nell’affrescare un muro cittadino, lasciando intatti, quasi fossero una decorazione, i buchi o le erbe cresciute nell’intonaco. Sarà forse per confondere la polizia, ma non uno dei graffitisti che hanno lavorato a Baronissi ha firmato con il proprio nome: tutti hanno fatto ricorso a monogrammi che li rendono identificabili tra di loro. «Smake» è venuto da Campobasso; «Senso» è una ragazza di Milano che risiede in Germania. Altri, prima di intraprendere un lavoro, si riunisco preventivamente in «crew» (gruppi) e firmano la rappresentazione appena ultimata con due o tre monogrammi. Di certo, ammirando oggi il lungo muro affrescato da 42 graffiti si può sostenere che gli artisti venuti da Padova, Milano, Pagani, Salerno della stessa Baronissi (un ragazzo di 14 anni e uno di 17), da Napoli e da Campobasso sono stati capaci di trattare il tema che s’erano dati con grande rispetto e quasi con commozione. Ogni giorno, davanti a quelle pitture si sono fermati, con grande curiosità, bambini e adulti della città della Vale dell’Irno, a guardare con rispetto le immagini di una tragedia già vista in televisione ma forse, in quel momento, non rivissuta alla luce di una riflessione più raccolta e profonda come quella che solo le immagini dell’arte possono sollecitare.

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