La Tour 13 – Graffiti e
Architettura Effimera
Le Opinioni di Giada – Rubrica
Dado e Joys, Ph Dado |
Molti sono gli articoli già usciti sul progetto La Tour 13, che ultimamente ha avuto una
grandissima attenzione mediatica. Vorrei, però, prenderlo ugualmente in
considerazione, perché credo sia uno di quelli meglio riusciti degli ultimi
anni e caratterizzato da un approccio altamente innovativo.
Come avrete visto dagli articoli precedenti di questa
rubrica, la mia volontà non è quella di dare delle risposte effettive a una
forma artistica, quanto porre delle questioni sull’argomento e slanciare il dibattito
critico. E penso che la Tour 13 molto
intelligentemente abbia fatto proprio questo.
Avevo già avuto la possibilità di carpire qualche
immagine del progetto prima che si svelasse in toto al mondo intero, semplicemente
perché ho la fortuna di conoscere alcuni dei writer che hanno preso parte al
piano italiano, curato da Christian Omodeo, e già allora avevo compreso quanto
questo evento potesse imporsi nella storia della curatela del Writing e della
Street Art.
Ma andiamo per ordine.
Molti sono i progetti curatoriali che hanno portato
il mondo del Writing e della Street Art a una visibilità più elevata anche all’interno
di quello che è un sistema dell’arte più canonico, ma ancora troppo poco
consapevole rispetto a questa forma artistica. Ci sono già stati infatti alcuni
progetti spartiacque creati in maniera sapiente che hanno dato una svolta alla
conoscenza di questo mondo, sia per l’ottima ricerca e curatela effettuata, che
anche per la buona comunicazione, in Italia, ma soprattutto all’estero. Questo perché
allo stato attuale delle cose l’Italia ha alcuni dei più interessanti artisti
attivi, ma non ha ancora avuto la capacità di riconoscerlo, tranne forse per
alcuni casi di commercializzazione del fenomeno.
Quello che spesso non si sa, però, è che interventi di
quello che può essere considerato come muralismo urbano, ovvero dei lavori di
ampio respiro su grandi facciate di edifici o comunque su luoghi di notevoli
dimensioni, ci sono da sempre, ma il più delle volte sono nati magari in
contesti non istituzionali. Alcuni casi come jam o festival che hanno avuto
apporti di grandi pareti, hanno comunque dato il via ad approcci di ingigantimenti
dei pezzi, che sebbene molto belli e ben pensati, rischiano però di andare a togliere
una parte di gestualità del movimento e di approccio istintivo. Molte volte,
invece, alcuni di questi casi sono stati realizzati con la volontà di farli
passare come degli interventi di arte pubblica, un aspetto in realtà di arduo incanalamento,
proprio perché la stessa è determinata da una difficile comprensione e
definizione. Inoltre, dato che il
Writing è un sistema autoreferenziale, va a inserirsi in una ricezione
difficilmente pubblica, tranne, forse, in alcuni casi di Street Art dove il
linguaggio utilizzato è più comprensibile, immediato e, soprattutto, leggibile.
Esempi comunque che si devono tenere presente in questo senso sono quelli come
il Great Wall di Los Angeles (che effettivamente si può definire come
intervento di muralismo urbano e non di Writing o Street Art), o per citarne di
più vicini a noi, Picturin a Torino e Frontier a Bologna.
Cosa differenzia allora La Tour da questi altri progetti precedenti? Gli aspetti, a mio avviso, sono questi: si
svolge all’interno di un edificio, è effimero ma, soprattutto, è un progetto a
tempo determinato.
Qualsivoglia forma di pittura murale, sia essa
Writing, Street Art o Stencil Art, in realtà, è da sempre destinata a
scomparire nel tempo, ad essere ricoperta da altri lavori (ahimè spesso è la
mancanza di muri che porta a questo), a determinare anche un cambiamento dello
stesso paesaggio urbano grazie alla sua stessa presenza. Il caso de La Tour, però, che ha un tempo di vita di
solo un mese, va a inscriversi in una tradizione artistica già presente e,
probabilmente, per questo motivo è ancora più forte, perché riesce a portare il
rapporto architettura-graffiti (di per sé biunivoco e imprescindibile) all’interno
di un sistema già riconosciuto e accettato. Si può andare a determinare allora una
storicizzazione e istituzionalizzazione del fenomeno, questa volta sani e, cosa
ancora più importante, probabilmente il tempo molto ristretto toglie la
possibilità da forme di commercializzazione dell’evento che il più delle volte
vanno a svilire la stessa forma artistica.
Dado, particolare
Joys, particolare
Esistono molti lavori nella storia dell’arte che
parlano chiaro rispetto al rapporto arte e architettura effimera, di cui questo
ne è una in/consapevole conseguenza, ma due in particolare sono da ricordare
come punti cardine di questo raccordo.
Come non citare, allora, Conical Intersect di Gordon Matta Clark del 1975, che proprio Parigi
ha visto la sua realizzazione. L’artista infatti aveva avuto la possibilità di
lavorare all’interno di un edificio abbandonato e destinato alla demolizione
nel quartiere di Les Halles, dove è andato a creare delle forme concave all’interno
del muro, ben visibili dal basso. In quell’occasione, tra l’altro, Matta –
Clark ha girato anche un film in cui riprendeva se stesso mentre segava
manualmente le pareti. Più volte quest’ultimo è stato rivisitato anche in
lavori molto più vicini cronologicamente, come nel caso di Giorgio Andreotta
Calò, il quale lo ritiene un artista imprescindibile per la propria pratica o
Richard Wilson, che lo ha ripreso nel famoso progetto per la Biennale di
Liverpool. Wilson in quel caso, infatti, è andato ad intervenire su di un
edificio abbandonato nella periferia di Liverpool dove, tagliando la facciata
in maniera circolare, ha creato una struttura rotante indipendente montata su alcuni
bracci meccanici. In questo modo l’artista ha dato al pubblico la percezione di
diversi punti di vista applicabili all’edificio, dove il continuo rotare dello
spezzone permetteva anche scorci completamente nuovi e diversificati. Nasceva così
una spettacolarizzazione dell’architettura.
Gordon Matta Clark, Conical Intersect
Richard Wilson, Turning the Place Over
Altro esempio è House
di Rachel Witheread, una delle artiste che forse ha lavorato al meglio
sulla relazione arte-architettura, che in quel preciso caso è andata a lavorare
sulla realizzazione di un calco in cemento di una casa destinata alla demolizione.
Questi progetti, Conical Intersect, House
e La Tour 13 sono tutti caratterizzati da una ri-attivazione di un’architettura
destinata a morire e al suo ricordo tramite l’arte e la sua documentazione.
Altro aspetto che ho trovato nuovo di La Tour è che il graffito per la prima
volta diviene uno spazio esperenziale e una forma attivata dal pubblico, che
percorrendo le stanze va a creare una sequenzialità, un percorso e una
selezione dei lavori, degli aspetti che rendono il progetto sempre diverso.
La
stessa esperienza si ha nel sito internet di cui consiglio la visita, anch’esso
a tempo, dove a quel punto si vanno a determinare una forma di telepresenza e un’effettiva
dimensione relazionale con i pezzi, che si attiva nella stessa scelta dei
lavori da salvare e nell’atto del clic. Ma questo sarebbe un altro discorso
lungo da fare e, come sempre, non voglio annoiare i lettori.
Tutti hanno parlato del museo effimero della Street
Art, io parlerei più di uno spazio di scorrimento della Street Art in due
dimensioni: verticale e orizzontale, e di una fruizione, finalmente, attiva.
Giada Pellicari
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